Sul femminicidio

Oggi, giornata contro la violenza sulle donne, vorrei brevemente intervenire nel dibattito intorno al femminicidio che, dati i tragici fatti di cronaca, sta purtroppo attraversando ancora una volta i media. Vorrei intervenire perché, ahimè, temo che la diagnosi del fenomeno che se ne sta facendo sia errata e, se la diagnosi è errata, anche la cura proposta sarà di conseguenza errata. Premetto che quello che sto per scrivere non è interamente farina del mio sacco, non sono l’unico a pensarla così, e a fine post inserirò una bibliografia minima di riferimento da cui ho tratto le mie idee.
Da più parti sento sostenere, e lo si dà ormai per scontato, che il fenomeno del femminicidio rientri nella questione della differenza di genere. Io invece ritengo che sia un problema sociale di più ampia portata. Mi spiego. Un uomo che esercita violenza sulla donna perché, secondo lui, mostra troppi centimetri di pelle è un problema di genere. Quell’uomo esercita violenza sulla donna perché, nella sua concezione, la donna deve restare coperta. In questo caso la donna subisce violenza in quanto è donna. Ma un uomo che esercita violenza su una donna perché questa ha frustrato i suoi bisogni narcisistici, non sta punendo quella donna in quanto è donna, la sta punendo in quanto soggetto attivo e responsabile della sua frustrazione. Se, a parità di struttura di personalità, il rapporto fosse omosessuale e l’amata fosse un amato, cioè un uomo e non una donna, probabilmente l’esito sarebbe lo stesso. Nella maggior parte dei fatti di cronaca che sentiamo sui media, il movente che spinge il maschio a esercitare violenza sulla donna non è il fatto che la donna si è macchiata di un crimine di genere inaccettabile per il maschio, ma è il fatto che il maschio non è in grado di tollerare la frustrazione di un rapporto sentimentale concluso. Qui l’uomo esercita violenza sulla donna non in quanto donna, bensì in quanto causa di una sofferenza psichica inaccettabile. La fine del rapporto è per lui uno smacco narcisistico che non è in grado di gestire ed elaborare, e che quindi sfocia nell’atto violento.
Di solito, quando espongo questa mia idea, mi si ribatte che sono comunque dei maschi che esercitano violenza sulle donne. Verissimo. Ma quello è il mero fatto empirico che nulla dice sul perché esercitino violenza, sul significato di quella violenza. Un dato di genere però c’è. Alcuni studi di psicologia hanno mostrato come l’aggressività dei maschi sia maggiormente eterodiretta, mentre quella delle femmine sia più autodiretta: quando sono arrabbiati i maschi agiscono su un qualcosa esterno a loro, mentre le femmine agiscono su loro stesse. Che questa differenza sia innata o culturalmente appresa non è ancora dato sapere, ma questa è l’unica differenza di genere che personalmente vedo nel fenomeno dei femminicidio.
Ma se il problema non è il genere quanto piuttosto è l’incapacità di tollerare la frustrazione, fenomeno prettamente intraindividuale, perché allora dovrebbe essere una questione sociale? Perché ormai l’incapacità di tollerare la frustrazione, che in alcuni individui sfocia nel gesto omicida, non è più individuale ma è collettiva. E qui mi rifaccio ai testi in bibliografia. Viviamo in quella che è stata a più riprese definita come l’epoca dello smarrimento, dove i livelli di insicurezza, di individualismo, di tensione al successo personale (narcisismo), di gratificazione immediata dei desideri, di sfaldamento dei legami sociali sono ai massimi storici, mentre i livelli di educazione emotiva e di gestione della propria sfera affettiva sono ai minimi. Questo crea un clima generalizzato di rabbia, paura, e nervosismo senza che si abbiano le risorse psicologiche per tollerare queste rabbie, paure e nervosismi i quali, inevitabilmente, sfociano in azioni violente di un tipo o di un altro (anche un voto politico può essere un’azione violenta).
Se questo è il problema, se la questione non è di genere ma è sociale, allora puntare sull’educazione alla parità di genere per contrastare i femminicidi potrebbe non avere gli effetti desiderati. Si dovrebbe scommettere su una rivoluzione politico-sociale che contrasti lo smarrimento odierno e riporti sicurezza, senso comunitario, e capacità di tollerare le frustrazioni. Ma sappiamo tutti quanto enormemente complicato e complesso sia tale progetto.

Zygmunt Bauman, 1999. La solitudine del cittadino globale. Feltrinelli.
Alain Ehrenberg, 2010. La società del disagio. Eiunaudi.
Federico Chicci, 2012. Soggettività smarrita. Mondadori.

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